Cerca nel blog

lunedì 23 agosto 2010

Psicologia della comunicazione: la comunicazione non verbale

La comunicazione non verbale è tutto ciò che durante la comunicazione non è trasmesso da parole. Di regola, in una comunicazione faccia a faccia, sono attivi il canale uditivo-vocale e il visivo-cinesico. Occasionalmente anche il motorio-tattile e chimico-olfattivo. Nel canale acustico la CNV è la prosodia e il sistema vocale non verbale o paralinguistico.
I segnali non verbali variano per stabilità, ad esempio il timbro della voce rimarrà tale e quale per lunghi periodi della vita, e la salienza, cioè il passare in primo in piano, ad esempio, di alcuni tratti dell'eloquio, varia in ogni conversazione.
La prosodia è la "melodia" del parlato ed è molto informativa sullo stato d’animo e dell’atteggiamento dell’interlocutore. A determinare la prosodia è la forza vocale, cioè l’intensità volumetrica determinata dal complesso fonatorio. Spesso le persone hanno un volume caratteristico, altre volte lo adattano a esigenze sociali e culturali. Spesso il cambio di forza vocale durante il discorso ha un ruolo di interessare l’ascoltatore. Ha precisi scopi anche di avvicinare o allontanare gli ascoltatori. Per quanto riguarda l’intonazione, il tono è dato dalla frequenza della fondamentale. Halliday sostiene che l’intonazione abbia uno scopo di tensione novità-dato: alzare il tono introduce una novità, abbassarlo o mantenerlo costante indica che è tutto nella norma. L’intonazione fa da punteggiatura e delimita sintagmi e proposizioni. La velocità dell’eloquio è il numero di sillabe pronunciate per secondo, articolando più o meno velocemente i suoni o diminuendo o aumentando le pause. Di norma segnalano stati interni del parlante. Se è veloce indica preoccupazione, mentre se è lento tranquillità. Eloqui troppo lenti e interrotti indicano disorganizzazione mentale. Il significato pragmatico che si vuole dare alla parola spesso viene dato tramite fenomeni di durata, ad esempio allungando le vocali più del dovuto. Il ritmo è la distribuzione degli accenti sulle sillabe nel tempo. Accanto ai fenomeni elencati vi è anche l’enfasi, la sottolineatura verbale di sillabe o parole tramite pause melodiche. Rosenthal e Duncan hanno dimostrato che l’enfasi dà luogo a profezie autoavverantesi.
Trager (1958) introduce il concetto di paralinguistica e include tutte le parti che non sono linguaggio nell’enunciato. Le interruzioni dell’eloquio, esitazioni o non-fluenze, pause o silenzi, segnalano spesso i turni della parola per i partecipanti. Sacks e al. chiamano pause l’interruzione dentro il turno, gap quella tra i turni e lapse quella in cui gli interlocutori mantengono il silenzio.  Il silenzio è un segnale ambiguo. Può mostrare consenso, vicinanza, intimità come dissenso, lontananza, ostilità. Per una cultura come la nostra il silenzio è imbarazzante. Diversamente, per le culture orientali, il silenzio è lo spazio nella comunicazione in cui si medita e dà l’impressione di dialogo riuscito.
Trager (1956) distingue anche tra qualità della voce e vocalizzazioni. Dalla qualità della voce si inferisce sulla persona che parla e sul contesto in cui parla. Dalla voce capiamo l’età, il sesso, il gruppo etnico, la classe sociale e su certe occupazioni. Alcune ricerche hanno messo in evidenza che dall’inflessione dialettale si inferiscono informazioni da stereotipi. Chi parla senza inflessioni dialettali viene giudicato intelligente, competente e sicuro di sé. Mentre chi mostra la propria provenienza è considerato disponibile e cordiale. Molte ricerche dimostrano che dalla qualità della voce è possibile risalire all’emozione provata e all’atteggiamento che si ha verso l’ascoltatore  e il contenuto del discorso.
I segnali visivo-cinesici della comunicazione li possiamo trovare anche nell’aspetto fisico e nell’abbigliamento. Altezza, peso, conformazione del corpo, colore e stato della pelle, capelli e barba, lineamenti del viso, colore degli occhi determinano il modo in cui una persona si presenta. L’aspetto fisico fornisce informazioni sull’età, il genere, la razza oltre che sullo status sociale. Dall’aspetto fisico tendiamo a determinare la personalità. Sheldon sviluppò negli anni 40 una teoria che associava a determinati aspetti fisici (endomorfo, mesomorfo, ectomorfo) determinati tratti psicologici. Oggi la teoria è considerata ingenua, ma è importante per il fatto che esistono degli stereotipi nelle culture popolari. Sta di fatto che il nostro aspetto fisico produce negli altri una serie di comportamenti stereotipati che poi danno adito a profezie che si autovverano. Come l’altezza associata all’intelligenza, la barba alla virilità. L’abbigliamento la dice lunga sullo status sociale, come sottolinea Goffman è difficile sembrare più ricchi perché appunto servono i soldi per permetterselo. Oggi a dettare la moda è la folkway, le norme di costume, al contrario di epoche precedenti in cui erano norme giuridiche d’editto regale. L’abbigliamento svela tratti della personalità e quanto una persona tiene alla sua immagina. Come chi non segue la moda può essere anti-conformista o trascurato, così i capelli lunghi nei maschi indicano il desiderio di voler evadere dalle norme sociali. Altro importante effetto psicologico dell’abbigliamento è l’individuazione e la deindividuazione (Zimbardo, 1969). Avere un look può essere un modo per dimostrare la propria individualità, per essere riconoscibile e diverso da tutti. Le uniformi, ad esempio, danno l’effetto opposto si è uno nella massa uguale a tutti e ciò produce una scarica di reazioni psicologiche come la tendenza all’irrazionalità, senso dilatato del presente, diminuzione dell’autocontrollo etc. La bellezza invece è un passepartout per il successo. I belli sono considerati e trattati meglio dei brutti e godono di vantaggi sociali e sessuali. I neonati belli sono trattati meglio dai loro stessi genitori. Un eccesso di bellezza può essere controproducente. Scatena invidia e chi è troppo bello rischia di essere emarginato perché considerato inarrivabile. Nei gruppi la popolarità non è dei membri più belli, ma di quelli più comuni. La bellezza è riconosciuta da meccanismi innati e a quanto pare l’evoluzione ha fatto sì che gli adulti della specie umana assomiglino ai piccoli di scimmia, la nostra cugina evolutiva.

Nessun commento:

Posta un commento