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lunedì 22 dicembre 2014

Antropologia sociale: i malintesi della decrescita

Confusione, volontaria o involontaria, tra crescita negativa e progetto della decrescita
Il partigiano della crescita risponde "Volete la decrescita, ma siamo in crisi e la decrescita c'è già!". Questo argomento può essere utilizzato da avversari quanto da simpatizzanti ma mal informati.
La parola "decresita" non sta a signifcare crescita negativa. La "crescita negativa" è una ipocrita formula del gergo economico. Essenzialmente la "crescita negativa" sarebbe il decremento dell'indice feticcio del Prodotto Interno Lordo (PIL), si tratta cioè di una recessione o di una depressione.

La decrescita è lo stato stazionario e/o la crescita zero
Già nei pensatori classici si trova una visione dello stato stazionario. John Stuart Mill (1806-1873) abbozza già lo stato stazionario redivivo nel Club di Roma come economia a crescita zero. La differenza tra stato stazionario o crescita zero e decrescita è l'approccio. Nei primi due casi è l'imperio della sovranità sul sistema economico, mentre per la decrescita è la scelta di una civiltà con un altro paradigma alternativo.
Stato stazionario, rendimenti decrescenti e società della decrescita
È veramente necessario uscire dall'economia? Gli economisti classici non avevano progettato un sistema dipendente dalla crescita, anzi pensavano che ad un certo punto sarebbe avvenuto il blocco dell'accomulazione e l'evento di uno stato stazionario. Questo vale Adam Smith, David Ricardo, Thomas Robert Malthus e John Stuar Mill. Tuttavia la loro visione dell'economia è impostata sul meccanicismo newtoniano che corrisponde interamente ad un logica della crescita.
Per Smith lo sviluppo dei capitali combinato ad un aumento della concorrenza parta ad una riduzione dei tassi di profitto fino all'arresto di qualsiasi accumulazione netta. Per Malthus e Ricardo i rendimenti decrescenti in agricoltura portano ad un aumento della rendita fondiaria e a una inevitabile riduzione del tasso di profitto, che porta a sua volta ad uno stato stazionario. I due autori vedono questa come una situazione fosca in cui la popolazione di lavoratori è condannata alla pura sopravvivenza e ogni eccedenza di popolazione è motivo di miseria e violenza.
Mill, al contrario, pur condividendo la tesi dei rendimenti decrescenti dell'industria, presenta lo stato stazionario in modo più roseo. La società, liberata dall'ossessione della crescita e del rischio – e quindi stress – che questa comporta, potrebbe dedicarsi all'educazione delle masse e darebbe più tempo libero per dedicarsi alla cultura. Lo stato stazionario – scrive Mill – non è lo stato stazionario del progresso umano, ma dell'economia capitalistica. Finita la gara per l'arricchimento industriale, l'industria non sarebbe soppiantata, ma perfezionata per quello per cui è essenziale, abbreviare il tempo di lavoro.
Come si può intuire gli obiettori di crescita sono vicini alla tesi di Mill, per cui il tempo non destinato al lavoro sarebbe speso per avere una vita più ricca. Per fare questo occorre un'etica dello stato stazionario accompagnata da istituzioni la cui guida porti a raggiungere il traguardo della "frugalità gioiosa" proposta da Illich e Gorz. La controrivoluzione neoliberista invece ha portato un sistema che non abbandona la vecchia logica della crescita, ma che sarebbe una crescita paradossale: il sistema si rigenererebbe invecchiando! Però è facile immaginare il capitalismo  come una macchina, d'altronde è stato progettato così: sarebbe una bicicletta che rimarrebbe in equilibrio solamente pedalando.
Di fatto lo stato stazionario non è compatibile con il capitalismo. Dopo l'evidenza storica dei rendimenti decrescenti, quanto meno nell'industria e su un periodo di lunga durata (2-3 secoli), ha permesso a gli economisti neoclassici di lanciare l'equivalenza tra capitale naturale e capitale artificiale. Però è assurdo pensare che l'economia possa fare a meno delle risorse naturali e possa far leva solamente sul capitale finanziario e tecnologico.

La crescita zero e la decrescita
La richiesta di un sistema che non usi più risorse di quante non se ne rigenerino e che non produca più rifiuti di quanti ne riesca a smaltirne è sostanzialmente incompatibile con l'economia mercantile capitalistica. Secondo Daly, la teoria dello sviluppo durevole, se preso come sinonimo di crescita durevole, è così pericolosa che se venisse veramente applicata segnerebbe la fine del pianeta. L'unico sviluppo durevole possibile è quello che cerca di mettere l'industria in pace con l'ecosistema, cioè uno sviluppo senza crescita.
La decrescita sarebbe contro la scienza e quindi tecnofoba
Gli obiettori di crescita non mettono in croce la scienza, ma la pretesa di onnipotenza della tenica e lo scientismo. Per un sillogismo dalle premesse non corrette (tutti gli scienziati sono portatori di sviluppo) attaccare la scienza fa accusare di oscurantismo. Gli arogmenti delle autorità tecnoscientifiche che si interessano di economia in genere sono pro domo sua: 1) non esistono evidenze scientifiche che il disastro x esista o sia dovuto a y; b) comunque la scienza soccorrerà il pianeta da tutti i problemi. Come spesso accade in questo periodo, gli stessi mezzi che hanno causato un disastro vengono usati per rimediare.
La fiducia nella scienza e l'ottimismo di questi scienziati è senza autocritica. Molto spesso fanno parte di comitati che si occupano dello studio di un problema ecologico specifico e di proporre soluzioni. E altrettanto spesso sono al soldo delle multinazionali che hanno in qualche modo diretto o indiretto provocato un dissesto ecologico o lo vogliono provocare. Nel primo caso possono sfoggiare un inquietante "negazionismo", nel secondo caso avallare una soluzione gradita ai finanziatori.
Il caso del nucleare è attualità. Le riserve di idrocarburi stanno esaurendosi e le potenze economiche emergenti (Cina, India) affacciatesi al mercato globale preterrebbero di vivere all'occidentale dopo secoli di sfruttamento. Il pianeta non può reggere ad un tale spreco ed inquinamento, ma si fanno lo stesso i conti con la richiesta elettrica che tende a crescere a tassi vertiginosi, un fattore 10 ogni 100 anni. Le proiezioni sono allucinanti: per garantire il fabbisogno umano di elettricità tra mille anni servirebbe tutta l'energia della galassia. 13000 reattori nucleari disposti su tutto il pianeta dovrebbero bastare ad accendere ora le luci in tutte le case: abbiamo uranio naturale e torio – distruggendo piane di scisto argilloso – per 32000 centrali. Per non parlare che abbiamo ad esempio i disastri nucleari occorsi nella nostra storia recente.
La folie della scienza applicata al capitalismo aggressivo non solo ha devastato il pianeta, si permette di disegnare la forma d'uomo adatta a vivere nel nuovo ecosistema degradato dalle imprese industriali. Transumanismo che venera il super uomo resistente all'inquinamento, uomini anfibi creati sinteticamente per vivere sotto l'oceano, uomini cibernetici, terraformazione di pianeti destinati ad élites spaziali e via dicendo ricordano più gli incubi che i sogni di sviluppo che ci eravamo posti.
Se vogliamo essere lucidi, la scienza vive di finanziamenti in parte provenienti dal pubblico e in parte dal privato, non è veramente autonoma quanto potrebbe sembrare. Potremmo essere ancora più lucidi affermando che il settore pubblico è in mano al privato o è stato privatizzato. Alla fine chi finanzia indica direttamente o indirettamente la direzione da prendere e rende possibile la ricerca e lo sviluppo. Le scelte private, in genere finalizzate alla ricerca dell'utile, assorbono tutte o quasi le competenze e le reti disponibili per ridurre gli ostacoli secondari che interrompono uno specifico processo di produzione del complesso industriale.
Difficilmente verrà incoraggiata a queste condizioni la "chimica verde", la medicina ambientale, l'ecotossicologia, l'agrobiologia e l'agroecologia, ma si tenterà di seguire la modificazione genetica ad ogni costo. Si tende a preferire ciò che provocherà i nuovi problemi del futuro, dove verrà di nuovo applicata la stessa logica, cioè quella dell'utile per l'utile. Non tutti i problemi lasciano però quei margini di tempo per essere presi al volo o all'ultimo, alcuni possono essere imprevedibili e portare l'intero ecosistema al collasso.

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