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domenica 21 dicembre 2014

Psicologia politica: l'azione collettiva

Assumendo la teoria dell’identità sociale come frame possiamo dire che l’azione collettiva avviene quando un membro di un gruppo agisce come rappresentante del gruppo e l’azione che svolge è atta a migliorare le condizioni del gruppo. L’azione individuale o collettiva sarebbe dipendente dall’identità con cui una persona si categorizzerebbe.
Nell’ambito dell’azione collettiva l’analisi si svolge su tre livelli: macrolivello – forze strategiche e politiche che facilitano o impediscono l’azione collettiva –, mesolivello – condizioni generali che influenzano i gruppi e i loro membri – e microlivello – risposte psicologiche dei membri del gruppo che agiscono a fini collettivi. Come è intuibile politologia e sociologia si occupano principalmente dei macro e mesolivello, mentre la psicologia del microlivello.
Le modalità di classificazione dell’azione collettiva sono varie, ma quella più correlata alla dimensione psicologica è quella data dall’interazione delle dimensioni tempo e sforzo richiesto [Klandermans 1997]. Un’altra è data dalla ricerca sociologica: azione normativa – che si conforma cioè alle regole del sistema sociale – e azione non normativa – che viola tali regole. I gruppi ricorrono ad azioni non normativa qualora percepiscano la relazione legittima e instabile o illegittima e stabile.
Gli strumenti di misura sono questionari composti di una serie di item volti a misurare la natura e l’intensità dell’azione collettiva. Le richieste fanno riferimento a: a) partecipazione effettiva;          b) partecipazione passata; c) intenzione di partecipazione; d) atteggiamenti verso la partecipazione.
Le ultime due sono interessanti per la ricerca psicologica perché rivelano le dinamiche che si hanno prima della mobilitazione, cosicché le persone possono coinvolgersi come: a) parte del potenziale di mobilitazione; b) target dei tentativi di mobilitazione; c) motivati a partecipare; d) passare alla partecipazione effettiva.

La ricerca che fa capo all’identità sociale fa uso dei costrutti di identità, ingiustizia ed efficacia. Ciò che è stato proposto sull’identità sociale è che questa serva 1) per la ricerca di status e potere e riconoscimento e 2) possa creare attrito con altri gruppi percepiti come minacciosi.
La percezione di appartenere ingiustamente ad un gruppo svantaggiato, discriminato, privato della possibilità di accedere alle risorse è una determinante dell’azione collettiva. Non stupisce perciò che le ricerche si siano concentrate sull’azione dei gruppi svantaggiati. Una distinzione in tal senso sul tipo di azione sociale è quella tra competizione e conversione. La competizione come è facile immaginare è qualora il gruppo svantaggiato intraprenda una lotta per affermare o difendere i propri diritti. Esistono dei casi particolari in cui i gruppi di status elevato curino gli interessi dei gruppi svantaggiati evocando un’identità sovraordinata e in questo caso si parla di conversione. In questo caso non ha senso di parlare di gruppi svantaggiati o avvantaggiati, ma di gruppi d’opinione [MacGarty 2009].

I membri di un gruppo sviluppano un’identità politicizzata quando decidono di impegnarsi in una lotta per il potere a nome del gruppo, sapendo che questo scopo necessita di un più ampio consenso sociale allargando la base ed eventualmente mettendo in discussione le autorità pubbliche.
Chi ha un’identità politicizzata ha il mandato di trasformare un ideale in realtà ed emerge perciò un’altra identità: l’identità ideologica o normativa.
Quindi l’identità politica è una determinante dell’azione collettiva, ma non è la sola. Occorre comprendere se l’identità collettiva è cronica o saliente. La salienza è determinata contestualmente, come detto. L’alta salienza dovrebbe avvenire quando succede ciò che Turner [1987] chiama “fit normativa”, ossia un’attiviazione dell’identità collettiva in caso di situazione di svantaggio.



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