La percezione di inguistizia è attivata quando si ha la percezione che dei diritti o dei principi fondamentali siano stati violati e che sarebbe giusto fare qualcosa per modificare la situazione.
Nel contesto psicosociale la prima ricerca da ricordare è quella di Stouffer [1949] sulla deprivazione relativa: percepire che il proprio gruppo di appartenenza sia svantaggiato. A livello individuale sono riscontrate tre condizioni di attivazione della deprivazione relativa:
1) percepire della mancanza di qualcosa che si ritiene importante,
2) sentirsi in diritto di avere quella cosa,
3) avere la percezione che altri abbiano determinato questa carenza.
A questo punto occorre distinguere le ingiustizie nella letteratura:
A) ingiustizia egoistica o collettiva: le persone possono valutare la propria situazione sociale in base a confronti personali o intergruppo. Nel senso che se un individuo percepisce una ingiustizia verso altri individui allora si parla di ingiustizia egoistica, mentre nel caso di gruppi sarà collettiva. Solo in questo caso l’ingiustizia diventa una determinante dell’azione collettiva.
B) ingiustizia vissuta o percepita: ha a che fare con il fatto che il gruppo che subisce ingiustizia sia il proprio (vissuta) o un gruppo di cui non si fa parte, ma ci si riconosce (percepita).
C) ingiustizia distributiva o procedurale: l’ingiustizia distributiva ha a che fare con la percezione della mancanza di misure comuni nella distribuzione di ricompense o punizioni; la giustizia procedurale è invece qualitativa e diviene ingiustizia quando si percepisce che non si riceve un giusto ed equo trattamento [Tayler 2001].
D) ingiustizia cognitiva o affettiva: la prima è attivata quando si ha la percezione di essere stati deprivati, la seconda ha a che fare con il significato emotivo attribuito alla percezione di ingiustizia, in particolare la rabbia, il risentimento, la frustrazione. La seconda, specie nella forma della rabbia, è una predittrice dell’azione collettiva.
Una determinante dell’azione collettiva, come anticipato, è anche l’efficacia politica, definita da Bandura [1997] come la percezione che il proprio gruppo possa raggiungere gli obiettivi posti con uno sforzo congiunto. L’efficacia dunque ha un accento pragmatico e strumentale, quindi l’azione collettiva è posta in essere quando i membri del gruppo ritengono che questo aumenti la probabilità di successo.
In ambito strettamente democratico, l’efficacia politica è la percezione di poter a) promuovere la propria opinione politica, b) sostenere programmi politici del partito di appartenenza, c) monitorare l’impegno delle proprie rappresentanze politiche con successo.
Secondo alcuni autori l’efficacia politica è divisibile in due dimensioni:
a) efficacia politica interna: convinzione nelle capacità di ottenere risultati desiderati in ambito politico tramite il coinvolgimento personale;
b) efficacia politica esterna: convinzioni relative al fatto che il sistema politico sia suscettibile di cambiamento.
L’efficacia politica esterna è correlata con la variabile fiducia nel sistema. Detto questo possiamo delimitare delle categorie di persone in base alle due dimensioni dell’efficacia:
a) Partecipanti: alta interna ed alta esterna;
b) Conformisti: bassa interna ed alta esterna;
c) Ostili: alta interna e bassa esterna;
d) Alienati: bassa interna e bassa esterna.
Una percentuale molto alta di alienati è un rischio per un regime democratico e alcune caratteristiche sociodemografiche sono correlate con l’alienazione politica: bassa istruzione e disoccupazione.
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