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lunedì 22 dicembre 2014

Antropologia sociale: come vedono gli altri?

Nelle analisi del processo della visione, nonostante la nostra conoscenza della fisiologia della visione non sia ancora completa, esistono due correnti di indagine: quella fenomenologica e quella biologica. La prima si interroga come il mondo percepito possa darsi attraverso i nostri mezzi e modi sensoriali, si interroga cioè sull'esperienza del vedere. La seconda invece basa la sua analisi sul comportamento fisiologico dei sostrati che permettono la visione. In ambedue i casi si è andati alla ricerca di costanti e di strutture.
In ambito artistico, le leggi della prospettiva, da quella centrale rinascimentale a quelle multiple barocche, sono esempi di un vasto e raffinato complesso di tecniche che utilizzano a fini rappresentativi i modi con cui l'occhio è portato a vedere. In altre parole l'arte ha permesso di creare artefatti che esprimono le regole dell'ottica di un periodo storico.
La ricerca evoluzionistica suppone invece le condizioni ecologiche per le quali noi avremmo, ad esempio, la capacità di percepire il movimento laddove non c'è, ossia come mai siamo fatti così e non in un altro modo. La percezione del movimento di un predatore seminascosto tra le fronde permette di inferire, se non percepire direttamente, la direzione del suo spostamento e, a quanto parrebbe, lo stesso effetto ci permette di percepire il movimento nei fotogrammi statici del cinema. Questo è uno di quei casi che permette di parlare di intelligenza visiva, di come, cioè, il sistema visivo "inferisca" per noi completamenti di parti mancanti e interpretazioni dei nostri dintorni.
L'interesse antropologico non è sul sostrato biologico, nemmeno sulle potenzialità a nostra disposizione, ma su come i dati visivi vengano interpretati culturalmente. A dire il vero l'antropologia degli albori si interrogò sulle differenze tra le popolazioni, nel XIX secolo le speculazioni sui "selvaggi" erano la routine e Rivers (1901) si chiese se effettivamente le leggende degli esploratori erano veritiere. L'antropologo distinse i due principali fattori dai quali dipende la potenza visiva: il primo è l'acuità dell'apparato sensoriale (fisiologico), l'altro è il potere di osservazione, che in sostanza è l'abito di discriminare accuratamente le informazioni visive da parte del soggetto. Rivers ipotizza la variabile interveniente della familiarità dell'ambiente osservato per la quale un soggetto avvezzo all'ambiente sarebbe in grado di inferire su dettagli euristici.
Tornando al caso giapponese, quello dei colori aoi e midori, possiamo in parte falsificare l'"ipotesi" (virgolette d'obbligo perché non è chiara la definizione) Sapir-Whorf: non è in tutto e per tutto la lingua a fornire gli strumenti, se non a permettere, alla mente per pensare. Oppure, in modo più convincente, le ricerche di Karl Heider sui Dani della Nuova Guinea (1970) dimostrano che questa etnia, che consta di due unici colori traducibili come "chiaro" e "scuro", sono in grado di ricordare colori focali come il rosso e il verde meglio di altri. La stessa cosa vale per gli Ndebu dello Zambia studiati da Victor Turner. Questa etnia possiede solo tre colori: bianco, rosso e nero. Per il resto della gamma cromatica utilizzano metafore o frasi descrittive, allo stesso tempo i tre colori codificati dalla lingua Ndebu simbolizzano attributi naturali, personologici e entità astratte.
Ciò che vale per i colori vale anche per le forme: Nadel aveva notato che gli Yoruba non potevano identificare disegni su carta di oggetti familiari, anche se questi erano stati rappresentati su bassorilievi o su cuoio e riconosciuti. Deregowski distingue due caratteri che si possono cogliere nelle immagini che permetteno di associarle con gli oggetti che rappresentano. I caratteri epitomici, la caratteristica di assommare tratti essenziali dell'oggetto, ed eidolici, che evocano la profondità tridimensionale. Per i caratteri epitomici, Forge (1973) suppone che la "socializzazione della visione" predisponga nell'aspettarsi cosa un supporto debba riprodurre. Le cose vanno peggio per i caratteri eidolici che possono essere dedotti (interpretati) in base alla conoscenza pregressa degli oggetti, cioè senza essere percepita. Eppure Wade ricorda che viviamo in un mondo percepito come tridimensionale e, se anche le forme mondane sono combinazioni di strutture geometriche, si tratta comunque di un'astrazione adatta ai ragionamenti cartesiani e ai gestaltisti.
Si è perciò passati dall'ottica, con la metafora sistema visivo-macchina fotografica, alla psicologia della percezione, ora si capisce come la percezione sia culturalmente costruita e, perciò, occorre accostare lo studio della percezione visiva all'antropologia e alla storia.

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