Marazzi intende con "iconografia culturale" l'individuazione e la descrizione delle immagini, delle forme di rappresentazioni visiva, segni, espressioni corporali, che siano culturalmente significative nei luoghi e nei tempi in cui si presentano e nei modi della loro realizzazione.
Con "iconologia cultuale" intende l'analisi delle espressioni visive nel loro aspetto formale e nei significati culturalmente specifici, della loro efficacia simbolica, del potere emotivo, della rappresentatività ideologica, degli stili e delle regole espressive, delle funzioni e dei relativi codici comunicativi espliciti o criptici, delle relazioni con il contesto sociale allargato o ristretto a cui si rivolgano e delle eventuali regole sociali applicate, contestate o infrante.
Queste analisi antropologiche non sono state finora un nucleo di ricerca autonomo, nonostante Debord abbia profetizzato il successo della "società dello spettacolo" dove l'immagine, riprodotta all'infinito, assume caratteristiche totalizzanti tanto da sostituirsi al mondo reale e di spostare ogni significato fuori dall'immagine, tanto che il mondo virtuale, il mondo dell'immagine del mondo, è l'unico mondo possibile e al contempo un mondo morto.
L'analisi iconologica finora dominante ha costruito i suoi schemi su quel paradigma della linguistica definito strutturalismo. Si è cercato perciò di separare il significato dal significante considerando l'icona come la composizione di segni convenzionali elaborati socialmente, priva perciò di una propria carica evocativa e di una identità propria. Come per i fonemi anche le immagini si trasformerebbero come elementi di un linguaggio. Un sistema non è altro che un criterio arbitrario e tranquillizzante per mettere in ordine le cose disposte caoticamente nel mondo.
La rappresentazione visiva non è una rappresentazione che utilizza sempre un codice arbitrario come quella linguistica: l'esempio è il quadro dell'elefante di Deregowski (1980) per cui viene rappresentato in modo che si vedano tutte le parti del suo corpo contemporaneamente. L'artista africano sa benissimo che non vedrà mai un elefante in quel modo a meno che non venga disteso a pelle d'orso, però a detta sua così l'elefante appare "vivo". L'apparenza di vita è data dalla totalità degli arti e della proboscide, della coda e dell'apparato riproduttivo perché di elefanti senza parti del corpo se ne trovano solo di morti.
Benveniste aveva detto qualcosa di simile: "il linguaggio ri-produce la realtà", quindi non è arbitrario il segno, ma solo, eventualmente, la sua selezione. Il segno e la realtà segnata sono unite per il codice, tanto che un segno sta per una cosa e non per un'altra. Le icone culturali possono essere sì invenzione dell'uomo, come i segni linguistici, ma sono anche forme e aspetti visibili della realtà, provvisti cioè di proprie qualità specifiche che l'uomo sceglie intenzionalmente e carica di significati simbolici. Le diversità tra ciò che si comunica con un linguaggio e i contenuti simbolici e comunicativi di una immagine sono evidenti, e tali da rendere di dubbio interesse un'analisi che si basi su associazioni tra l'uno e le altre, come ha inteso proporre la semiologia.
L'iconologia proposta da Marazzi non va alla ricerca di forme archetipiche depositate nell'inconscio collettivo e nascoste in qualche angolo della mente, ma al contrario è rivolta alla dimensione culturale (cioè relativa) come dimensione dell'elaborazione dei significati che dei modi di esprimere visivamente forme e immagini.
L'impostazione, pur spostandosi nelle assunzioni di fondo, per l'autore dovrebbe essere quella di Kepes e della sua opera Il linguaggio della visione. Ciò che è interessante nell'approccio è la dimensione dinamica dell'esperienza dello sguardo: lo sguardo e l'immagine sono vivi: noi li facciamo vivere in noi. Per l'iconografia dinamica di Kepes ammette che la contraddizione insita nell'associazione si risolve in un significato. L'esempio è quello di due uomini che si voltano le spalle seduti su una panchina. Perché sono seduti così? Cosa non va? Ed è qui partecipazione dinamica di chi guarda.
Ciò che plasma il mio modo di vedere e di esprimermi, di stare nel mondo e con gli altri – cioè modi datimi dalla cultura –, è prima di tutto visto, poi interpretato e appreso. Qui è il campo dove si dovrebbe erigere l'osservazione dell'iconologia culturale: dove gli uomini vengono plasmati dalla vista. La nostra invece è una cultura della parola, prima orale e poi scritta, dove abbiamo il Verbo dei monoteismi e la Lex romana. Da qui l'equazione per cui le civiltà prive di scrittura sono "primitive".
Secondo Panofsky, storico dell'arte tedesco, si possono distinguere tre strati nel soggetto o significato di un'opera figurativa. Il primo, descrizione preiconografica, viene colto identificando le forme come rappresentazioni di persone e oggetti e le loro relazioni. Il secondo strato è il campo di studio dell'iconografia in senso stretto, in esso gli oggetti e gli eventi del quadro vengono associati a temi o a concetti. Qui si riconoscono i significati secondari o convenzionali, cioè dati culturalmente. Il terzo strato è propriamente iconologico in quanto si riferisce a quei principi interni che guidano l'atteggiamento fondamentale di chi ha realizzato tale rappresentazione. L'analisi cade sulla nazione, la classe, l'epoca, la convinzione religiosa o filosofica, cioè tutti quei principi che inconsapevolmente l'autore, una singola personalità, qualifica e condensa in un'opera.
Nessun commento:
Posta un commento