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sabato 13 dicembre 2014

Psicobiologia: le malattie mentali

La paura è una risposta adattativa, ma una sua espressione non appropriata è alla base del più comune disturbo psichiatrico: il disturbo d’ansia. Si tratta di una gamma di disturbi che colpisce il 22% degli uomini italiani e il 9% delle donne ogni anno.
Possiamo identificare almeno tre disturbi d’ansia: attacchi di panico, agorafobia e disturbo ossessivo-compulsivo.
Gli attacchi di panico sono improvvisi e senza preavviso. Chi ne soffre riporta sensazioni fortemente spiacevoli e una grande sensazione di pericolo, ma la durata è normalmente inferiore ai 30 minuti. Il disturbo da panico è caratterizzato da diversi attacchi di panico e dalla paura di continui attacchi. L’agorafobia rappresenta l’ansia di trovarsi in situazioni disagevoli e dalle quali è difficile fuggire. I soggetti con disturbo ossessivo-compulsivo presentano pensieri ricorrenti, intrusivi, pensieri non gradevoli come quello di essere contaminato da germi. A queste ossessioni i soggetti rispondono con comportamenti compulsivi per ridurre l’ansia. Alla base del disturbo d’ansia c’è una risposta errata allo stress. Normalmente reagiamo allo stress con un comportamento d’evitamento, aumentando la vigilanza, attivando maggiormente il simpatico e rilasciando più cortisolo. Questa regolazione ha come attore principale l’asse ipotalamo-ipofisi-surrenale.
Come sappiamo il rilascio di cortisolo avviene in seguito ad un aumento di ACTH rilasciato a sua volta dall’ormone rilasciante corticotropina (CRH).
Con la distruzione dei recettori per il CRH si ha un comportamento quasi completamente non ansioso. I neuroni contenenti CRH sono regolati da ippocampo e amigdala. l’informazione sensoriale giunge all’amigdala (nucleo centrale) che da origine alla risposta da stress. L’attivazione dell’ippocampo tende, invece, a ridurre il rilascio di CRH in risposta a livelli alti di ACTH. In situazioni di stress cronico si ha la morte dei neuroni ippocampali e una risposta allo stress amplificata.
Questo disturbo può essere trattato in diversi modi:
- psicoterapia: consiste nell’esporre il paziente allo stimolo che genera ansia in modo da estinguere progressivamente la risposta.
- farmaci ansiolitici: tra questi la classe più importante è quella delle benzodiazepine e degli inibitori del riassorbimento della serotonina. Ricordiamo che l’azione del GABA è critica per il cervello, se è troppo inibito si ha il coma ma se non viene inibito si hanno attacchi epilettici. Le benzodiazepine rendono più sensibile il canale per il GABA migliorando la percezione del paziente. Tra gli inibitori selettivi per il riassorbimento della serotonina il più popolare è il prozac. Questo tipo di farmaci prolungano il rilascio di serotonina e per questo sono indicati nel disturbo dell’umore mentre è bene ricordare che l’azione ansiolitica di questi farmaci non è rapida ma è dovuta a livelli elevati e duraturi di serotonina.
I disturbi affettivi colpiscono circa il 15% della popolazione italiana. Una depressione clinicamente rilevante ha caratteristiche spesso più gravi di quel che si crede. La depressione maggiore si presenta senza un vero motivo e dura fino ad un anno. I sintomi classici sono una forte diminuzione di interesse per la propria attività quotidiana. Una diagnosi prevede la comparsa di determinati sintomi per non meno di 2 settimane quali: disturbi alimentari, disturbi del sonno, fatica, sentimenti di colpa, poca concentrazione, pensieri negativi. Similmente alla depressione maggiore il disturbo bipolare è ricorrente nella popolazione. Si compone di periodi di mania in cui si manifestano una grande autostima, insonnia, eloquio eccessivo e distraibilità a cui spesso si alternano fasi di depressione maggiore. Anche per questi disturbi è stata indagata la possibile origine biologica. Una delle prime ipotesi prevede che il livello di umore sia strettamente collegato al livello di neurotrasmettitori quali noradrenalina e serotonina. È forte l’idea che i disturbi affettivi presentino una componente ereditaria. La predisposizione a contrarre disturbi affettivi è detta ipotesi diatesica da stress dei disturbi d’umore. Ed è sempre sull’asse ipotalamo-ipofisi-surrenale che le influenze genetiche svolgono il loro ruolo.
Nei pazienti depressi questo asse è iperattivo in quanto il meccanismo a retroazione basato sui recettori glucocorticoidei non funziona e l’ipotesi è che il numero di questi recettori sia determinato geneticamente. Esistono diversi approcci al trattamento di questi disturbi. Per la terapia elettroconvulsiva si vanno a sollecitare elettricamente delle aree del cervello col risultato che il paziente si rilassa ma subisce la comparsa di episodi amnesici. L’uso di antidepressivi, tra cui i triciclici, gli inibitori del riassorbimento di serotonina, della noradrenalina e delle MAO. Tutti questi farmaci riducono l’attività dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrenale. Il litio, anche se la sua funzione rimane in parte misteriosa, è molto efficace nel ristabilire l’umore.
La schizofrenia è caratterizzata da un distacco dalla realtà, una distruzione del pensiero, della percezione, dell’umore e del movimento. Dal punto di vista etimologico il suo nome sta per “mente divisa”. I sintomi si dividono in positivi: illusioni, allucinazioni, confabulazione, comportamento caotico; e negativi: espressione emotiva ridotta, povertà verbale, deficit nel comportamento finalizzato, disturbo di memoria. La schizofrenia può essere classificata in: paranoide, preoccupazione esagerata relativamente ad un pericolo immediato; disorganizzata, caratterizzata da una mancata espressione emotiva ed eloquio incoerente; catatonica, caratterizzata da particolari movimenti volontari, stupore e posture bizzarre.
La ricerca sulle basi biologiche della schizofrenia è una delle sfide più importanti delle neuroscienze. Questo disturbo ha una fortissima componente ereditaria (pari al 50% in gemelli identici), ma è molto importante anche il ruolo dell’ambiente. infatti geni difettosi rendono suscettibili alcuni individui a particolari effetti ambientali che portano alla schizofrenia.
Troviamo due ipotesi interpretative della schizofrenia. L’ipotesi dopaminergica è suggerita dall’osservazione degli effetti delle anfetamine su persone sane. Hanno mostrato che queste aumentavano le trasmissioni sinaptiche che usano catecolamine e maggior rilascio di dopamina. L’abuso di anfetamine porta ad una overdose da catecolamine con conseguenti episodi psicotici. Inoltre nel 1950 si è visto che un farmaco neurolettico combatteva i sintomi positivi della schizofrenia in quanto agivano come potenti antagonisti dei recettori dopaminergici.
L’ipotesi del glutammato prende il via dalle osservazioni sugli effetti comportamentali della feniciclidina (PCP o polvere degli angeli). L’intossicazione da PCP porta a sintomi di schizofrenia in quanto il PCP agisce come inibitore per i recettori NMDA (un sottotipo di recettori per il glutammato). Sono stati creati in laboratorio linee di topi con pochi recettori NMDA e si è visto che questi mostrano comportamenti tipici della schizofrenia quali movimenti ripetitivi, agitazione e alterazioni sociali.

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