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domenica 14 dicembre 2014

Psicologia sociale: euristiche e attribuzioni causali

Euristica di disponibilità

Nella formulazione di giudizi senza avere dati statistici spesso si ricorre alla memoria di specifici esempi, quindi viene decisa l'occorrenza in base all'accessibilità dell'esempio. Spesso, quindi, si ritiene più probabile un evento non perché lo sia realmente, ma perché è più facile pensare ad esso (Tversky, Kahneman, 1973).
A volte questa scorciatoia porta a giudizi corretti, ma anche a possibili distorsioni alcune dovute all'effetto solo, che, come visto nella correlazione illusoria, è la tendenza a confondere la salienza con la frequenza.

Euristica della rappresentatività

In mancanza di dati nel formulare un giudizio di appartenenza di un particolare stimolo ad una categoria vengono eseguiti confronti con la rappresentatività o tipicità di un prototipo.
Questo tipo di ragionamento non è esente da distorsioni. Tversky e Kahneman (1974) scoprono che molto spesso non viene considerata la probabilità di base dando così origine alla baserate fallacy, cioè non considerare che la probabilità di inclusione in una categoria sia molto bassa e comunque decidere l'appartenenza. Non solo, nel 1982 gli studiosi scoprono che molto spesso si tende alla conjunction fallacy, cioè la tendenza a considerare maggiore la probabilità di inclusione contemporanea in più categorie.

Euristica dell'ancoraggio e dell'accomodamento

Tversky e Kahneman (1973) dimostrano che si tende a considerare informazioni raccolte in precedenza valide anche se informazioni successive le smentirebbero, cercando di accomodare le nuove informazioni con quelle precedenti.

Euristica della simulazione

Non di rado le persone immaginano corsi degli eventi paralleli a quanto già successo o avverrà. Questo tipo di pensiero è detto pensiero controfattuale e permette di immaginare realtà alternative.
Tversky e Kahneman (1982) dimostrano che dato un evento negativo tanto più sarà importante lo stato di sofferenza quanto è più acessibile un corso alternativo positivo.

Le attribuzioni causali


Per andare oltre una prima impressione, occorre impegnarsi in un ragionamento più articolato e approfondito, soprattutto se si vuole arrivare a spiegare il comportamento altrui. E’ probabile allora che si prendano in considerazione come cause potenziali quelle che sono collegate al comportamento oppure che non accessibili, salienti nel loro contesto o suggerite dal tipo di informazioni disponibili.

L’attribuzione causale

E' un giudizio riguardo la causa di un comportamento o di un evento: cercare di inferire le cause dei comportamenti altrui è un elemento centrale della nostra percezione delle altre persone, come quando ragioniamo su un complimento chiedendoci se è sincero o adulatorio.

Attribuzioni a cause associate

Le associazioni tra elaborazioni cognitive riguardano anche le modalità con cui pensiamo più approfonditamente agli altri, nel momento in cui associamo comportamenti e loro possibili cause; per esempio, i comportamenti che sono azioni vengono distinti dai comportamenti che sono esperienze, pertanto vengono associati a diversi tipi di cause.

Comportamenti
Azioni
Esperienze
Le azioni si considerano causate principalmente dagli attori.
Le esperienze di solito vengono attribuite allo
stimolo anziché all’attore.


I comportamenti vengono interpretati secondo due possibili modi: cause disposizionali e cause situazionali.
La differenza è nell'interpretare il comportamento prodotto dai tratti della persona (causa disposizionale) o della situazione (causa situazionale). L'esempio è cosa ne pensa la gente riguardo al fatto che il gestore di un negozio abbia sparato ad un rapinatore, se la motivazione viene fatta risalire al temperamento agressivo allora la causa è disposizionale, altrimenti se si ritiene che la situazione abbia avuto la difesa come unico epilogo allora la causa è situazionale.

La teoria dell'inferenza corrispondente di Jones e Davis

Questa teoria cerca di spiegare quando si utilizzano cause disposizionali o situazionali nel tentativo di valutare il comportamento altrui (Jones, Davis 1965).
Per determinare se il comportamento è dovuto a caratteristiche dell'attore occorre prestare attenzione alla volontarietà (è spontaneo o imposto?), agli effetti non comuni (le conseguenze sono non comuni?), alla desiderabilità sociale (vengono violate alcune norme sociali?), alle aspettative (contrasta con l'aspettativa dell'osservatore?).

Il modello della covariazione di Kelley

Questo modello intende spiegare come viene interpretato un comportamento attraverso tre dimensioni per giudicare le cause che lo hanno prodotto (Kelley, 1967).
Il consenso è la dimensione che descrive la diffusione del comportamento (quanti hanno questo comportamento?), la distintività è la dimensione che valuta la validità del comportamento dell'attore (questo comportamento è tipico dell'attore?), e la coerenza che è la dimensione con cui si misura la frequenza del comportamento (questo comportamento è frequente nell'attore?).
La critica al modello è la difficoltà che si ha a reperire tutte le informazioni necessarie e che non tutti hanno la capacità di valutare la covariazione di 3 dimensioni.

Il modello di Weiner

Questo mdello non valuta le informazioni, ma le conseguenze a cui determinate inferenze portano (Weiner, 1979).
Il modello considera tre possibili dimensioni causali secondo le quali possono venire classificate tali cause dimandando considerazioni agli individui riguardo al successo o al fallimento. Il modello trova applicazione nelle strategia per il mantenimento dell'autostima.
La prima è il locus dell'attribuzione che può essere interno (relativo al Sé) o esterno (relativo alla situazione).
La secondo è la stabilità, ovvero se i fattori sono stabili nel tempo oppure transitori.
La terza è la controllabilità che esprime la percezione dell'osservatore di presenza-assenza di controllo volontario sulla causa attribuita.
Chi ha una immagine di sé negativa tende a avere, in caso di successo, locus esterno e scarsa controllabilità, mentre in caso di fallimento il locus torna interno.

L'errore fondamentale di attribuzione

L'errore fondamentale di attribuzione è la tendenza a voler spiegare la maggior parte dei comportamenti come dovuti a cause disposizionali, non soppesando le cause situazionali (Gilbert, 1995, Jones, 1990).

Ross (1977): ai partecipanti vengono assegnati tre ruoli: intervistatore di quiz, concorrente o spettatore. Alla richiesta di chi fosse preparato maggiormente la tendenza dei concorrenti e dei spettatori era quella di valutare maggiormente preparato l'intervistatore non considerando che avesse un ruolo privilegiato.

Jones e Harris (1967): un portavoce è incaricato di annunciare cattive notizie. La tendenza di chi ascolta è di ritenere il portavoce d'accordo.

Jones e Harris (1967): viene proposto un testo a favore del regime castrista. Ad un gruppo viene detto che l'autore aveva libera scelta in favore alla posizione, ad un secondo che all'autore è stato commissionato. Entrambi i gruppi ritenevano che l'autore fosse filo-castrista.

Gilbert, 1989, propone un modello a due fasi per spiegare il processo attribuzionale. La prima operazione è spontanea e consiste nell'inferenza riguardo alle attribuzione disposizionali a partire dall'osservazione dei comportamenti e se non si procede al processo aggiuntivo di correzione o aggiustamento volto a comprendere cause situazionali avviene l'errore fondamentale di attribuzione.
La spiegazione di questo fenomeno potrebbe risiedere nell'economia dei processi cognitivi coinvolti alla spiegazioni di nessi causali generali come possono essere le cause disposizionali, rispetto a quelli più complessi delle cause situazionali.
Non solo, si sono riscontrate differenze tra culture individualiste e colletiviste. Gli occidentali (individualisti) ricorrono più spesso a spiegazioni utilizzando cause disposizionali.

La differenza attore-osservatore nei processi attribuzionali

Come visto spesso nella cultura occidentale si utilizzano cause disposizionali per spiegare il comportamento altrui, ma non vale lo stesso per spiegare i propri comportamenti.

Goldberg (1978): ai partecipanti viene proposto un test le cui domande dovevano essere risposte con "sì", "no, "dipende dalla situazione" considerando altri o loro stessi gli attori. Quando l'attore era il partecipante la maggioranza delle risposte era "dipende dalla situazione".

La differenza del punto di vista cambia tra osservatore e attore, infatti l'attore elabora la situazione esterna più che i suoi stati interni, mentre l'osservatore indirizza la sua attenzione verso a chi compie l'azione.

Storms (1978), Taylor e Friske (1975): ai partecipanti viene fatto osservare un'interazione tra due individui, l'individuo più visibile, quindi più saliente, era considerato più rilevante.

Un singolo comportamento per l'attore è meno diagnostico rispetto ad un osservatore che in pochi minuti crea una sommaria impressione, certamente imprecisa, ma la tendenza è quella di sovrastimarne l'acuratezza.
La tendenza di un individuo è di valutare positivamente i propri comportamenti adducendo attribuzioni a proprio favore in caso di buon esito (self-serving attribuition), in modo di mantenere alta la propria immagine di sé, al contrario le attribuzioni saranno proiettate verso l'esterno.

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