La stratificazione sociale è quel processo che produce “strati sociali” cioè insiemi di individui che godono della stessa quantità di risorse e occupano la stessa posizione nei rapporti di potere. La stratificazione sociale è universale, ciò significa che ogni società conosciuta ha maturato al suo interno delle disuguaglianze: gli uomini in genere hanno più prestigio delle donne e gli anziani più dei giovani. La società di cacciatori-raccoglitori appare la più egualitaria, gli antropologi ritengono sia l’assenza o quasi della proprietà privata e della condivisione della produzione, unita ad una distribuzione del lavoro in base a caratteristiche di genere o età. Lenski si è occupato di capire le condizioni che producono disuguaglianze. In base ad una ricerca storica che abbraccia l’intera storia dell’umanità si è riscontrato un aumento della disuguaglianza in base ai sistemi di produzione. Come già detto quella di cacciatori-raccoglitori è la più egualitaria, quella orticola e infine quella agricola portano ad una maggior disuguaglianza sociale. In seguito la disuguaglianza avrebbe teso a decrescere. La forma a campana dipende, dice Lenski, dalla dimensione del surplus e dalla concentrazione del potere politico.
La teoria funzionalista della stratificazione sociale ritiene che la stratificazione è dovuta all’esigenza sentita da ogni società di collocare e motivare gli individui nella struttura sociale. Per cui per i funzionalisti la stratificazione non solo un fatto inevitabile, ma necessario all’esistenza stessa di una società. Le teorie del conflitto di Karl Marx e di Max Weber partono da assunti diversi. Per Marx la storia di una società è la storia delle lotte di classi sociali interne oppressori e oppresse. La modernità è scandita dal conflitto tra borghesi e proletariato. La disuguaglianza si colloca sulla dimensione dei rapporti di produzione, cioè chi detiene la proprietà e chi lavora. Nell’analisi di Marx un ruolo importante è svolto dalle classi piccola borghesia, sia detentori che lavoratori, e sottoproletariato, cioè chi non ha accesso a nessun mezzo di produzione. Le classi sono attori storici solo potenzialmente: Marx distingue i concetti di classe in sé e classe per sé. La prima è un insieme di individui nelle stesse condizioni, la seconda è l’insieme di chi ha coscienza della propria condizione sociale. Secondo Weber le disuguaglianze non dovrebbero essere cercate in un solo dominio, quello economico, ma in quello culturale e politico contemporaneamente. Per quanto riguarda la sfera economica non si allontanò da Marx, le classi sono disposte in disuguaglianze di situazione di mercato, l’equivalente dell’accesso ai mezzi di produzione. Nella distinzione di Weber le classi possono essere classi possidenti o classi acquisitive connotate in positivo o negativo. Le classi possidenti privilegiate in positivo sono i redditieri che acquisiscono ricchezza dai loro possedimenti e impianti di lavoro. Le classi possidenti privilegiate in negativo sono le classi che non dispongono di nulla, l’insieme delle classi medie di artigiani. Le classi acquisitive privilegiate in positivo sono professionisti e imprenditori di vario tipo, infine le classi acquisitive privilegiate in negativo rientrano tutti i lavoratori. Il ceto è l’equivalente della classe però nella sfera culturale. Un ceto è un’insieme di regole da seguire per distinguersi da altri. L’onore di ceto comporta una chiusura sociale, ovvero la selezione dei membri che possono aspirare ad appartenere ad un ceto. I sociologi americani degli anni ’50, tra cui Lenski, iniziano ad analizzare lo squilibrio di status. Un individuo fa parte di gerarchie differenti secondo l’ottica weberiana, così se un laureato lavorasse come commesso si assisterebbe uno squilibrio tra due gerarchie. In genere quando lo squilibrio è status acquisito (titolo di studio) basso e ruolo ascritto (posizione sociale) alto si assiste a un comportamento punitivo, autodiretto. Mentre se è il contrario ad un comportamento extrapunitivo, diretto verso la società.
Tra i sistemi di stratificazione sociale spicca la schiavitù. Esiste quando un’economia è poco sviluppata e vengono richieste grandi moli di lavoro umano. Il sistema delle caste in India suddivide per nascita degli strati sociali che non possono per tutta la vita aspirare di passare da una casta all’altra (chiusura sociale e purezza), che è un destino dovuto alla vita precedente. Le caste sono specializzate per il tipo di funzione e specializzazione ereditaria, nonché rituale. Nell’antico regime la società era articolata in ceti che, come per le caste, erano ascritte alla nascita e non si poteva uscirne. Nelle società europee premoderne vi era un enorme numero di famiglie che viveva in povertà, suddividibili in tre cerchi concentrici. Il cerchio interno, dei poveri strutturali, era composto da chi non poteva per età o per handicap provvedere alla propria sussistenza vivendo da mendicante; il cerchio centrale, dei poveri congiunturali, composta da lavoratori con paghe basse in seria difficoltà per l’aumento del costo della vita; il cerchio esterno, dei poveri non indigenti, composto dal 50% di tutti i poveri, era composto da professionisti durante un periodo di crisi a cui dovevano ricorrere alla pubblica assistenza. Per quanto riguarda la società moderna esistono nonostante la parità dei diritti di tutti i membri della società delle differenze strutturate. Labini divide per tre grandi categorie di reddito e cinque classi sociali. La borghesia è composta dalle fasce alte di reddito dovute ad imprenditoria, possedimenti e professioni notabili. La piccola borghesia relativamente autonoma da professionisti minori. La classe media impiegatizia da lavoratori dipendenti negli uffici pubblici e privati. Classe operaia dai braccianti e dai salariati fissi. Sottoproletariato dai disoccupati che rimangono fuori dal ciclo produttivo per lungo tempo. Goldthorpe si basa su due criteri: situazione di lavoro e situazione di mercato. Le sette classi delineate dallo studioso si sovrappongono con quelle di Labini differenziando ulteriormente i ruoli della classe media.
Il processo di industrializzazione ha introdotto nelle zone urbane masse di persone occupate in agricoltura nella classe operaia o proletariato urbano. Il lavoro era concentrato intorno al coordinamento di uomini e macchine. La fase successiva, o postindustriale, sfoltisce la classa operaia concentrandosi attorno alla conoscenza aumentando la classe media impiegatizia. In parallelo alla transizione appena citata, opera il processo di proletarizzazione. Questo vuole dire che alcune professionalità della classe media tendono a perdere di prestigio portandosi nel proletariato. Grazie al welfare state promosso dai governi occidentali i sociologi ritengono che si stia formando una nuova classe definita sottoclasse. Questa è l’insieme di delinquenti, ragazze madri, persone espulse dal mercato del lavoro. La sottoclasse non si procura un reddito dal proprio lavoro, ma dalle misure liberali di protezione sociale. Per le concezioni culturaliste è proprio il welfare state a creare questa situazione, per le strutturaliste invece è una condizione economica generale.
Forse nella descrizione sociologica le classi hanno perso di peso in favore delle disuguaglianze di reddito e patrimonio nella popolazione. Il primo è la quota percepita attraverso la propria attività, il secondo è la quantità di bene mobili ed immobili posseduti. Il coefficiente di Gini è espresso in una scala da 0 (perfetta uguaglianza) a 1 (massima disuguaglianza). Nei paesi occidentali, eccetto sporadiche eccezioni, la disuguaglianza di patrimonio è superiore alla disuguaglianza di reddito. Da anni l’Italia ha una disuguaglianza della distribuzione del reddito superiore alla media europea.
Vi è una forte relazione inversa tra classe sociale e tasso di mortalità. Gli individui delle classi sociali più povere si adattano a condizioni di vita malsane e lavorano in posti di lavoro scarsamente sicuri. Di contro, una volta era la denutrizione un catalizzatore, oggi invece le classi sociali più povere si nutrono di cibo con tassi lipidici e di zuccheri sopra la norma, perciò è l’obesità a essere un catalizzatore del tasso di mortalità.
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