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lunedì 22 dicembre 2014

Antropologia sociale: le controversie della decrescita

La crescita è necessaria per eliminare la povertà al Nord
Questa critica è tipica della destra e anche della sinistra, sia quella radical-chic che dimentica il popolo, che quella tradizionale che ha fatto della condizione operaia il suo fondo di magazzino.
1. Storicamente la crescita ha permesso ai Paesi occidentali di non subire una rivoluzione in chiave socialista (partiti comunisti compresi), in quanto sarebbe stato l'unico modo per strappare il proletariato dalla miseria. Oggi ci troviamo di fronte di nuovo allo stesso problema per cui la torta non può e non deve essere più ingrandita. Occorre ridistribuire le fette e decidere quanti possono accedervi.
2. La crescita del PIL degli ultimi trent'anni – i "Trenta Pietosi", come dicono gli economisti della regolazione – non ha creato né maggior occupazione né dato maggior benessere. Fatta eccezione della rivoluzione informatica, il sistema basa la propria crescita sulle proprie contraddizioni e disfunzioni (disoccupazione, inquinamento, dipendenze patologiche, dissesti ecologici, ecc.).
L'economia va bene, ma i cittadini stanno male. La globalizzazione rende tutto questo elevato all'ennesima potenza, dato che il famoso effetto trickle-down, o effetto di percolazione, si è trasformato in trickle-up, cioè l'aprirsi della forbice di Gini.
3. La logica della società della crescita è quindi doppiamente tragica. Si assisterebbe ad una crescita senza crescita, accompagnata da cortei di disoccupati e di infelici, e alla distruzione del pianeta. I critici della decrescita insistono ad applicare vecchie soluzioni non più perseguibili e accusano i decrescenti di fare aumentare le disuguaglianze e destinare alla morte una quantità maggiore di persone. È vero però, come stiamo assistendo, assecondare un sistema di crescita senza crescita condanna all'austerità in un ambiente dominato contemporaneamente da spreco e penuria.
L'86% delle risorse è in mano al 20% della popolazione, la disuguaglianza è a livelli medioevali. Il credo dello sviluppo ci rende tossicodipendenti da crescita. Ripartire equamente le ricchezze materiali non significa austerità, ma frugalità. I nostri bisogni non sono tutti bisogni materiali, per cui occorre iniziare a concepire una ricchezza diversa da quella materiale. La nostra vita può diventare tanto più ricca tanto più limitiamo i nostri bisogni.

Come risolvere con la decrescita il problema della miseria nei paesi del Sud?
L'obiezione per cui occorre aumentare il PIL per risolvere i problemi del Sud viene dagli stessi che auspicano l'aumento del magico indice per eliminare la povertà del Nord. La Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale sono i primi propugnatori dell'effetto trickle-down, cioè quello per cui all'aumento della ricchezza del Nord corrisponde un aumento delle condizioni di vita del Sud. E sembra veramente paradossale perché il Nord basa la propria ricchezza sull'impoverimento del Sud, mediante l'estrazione e il prelevamento delle risorse e il mantenimento della popolazione nell'ignoranza e nella guerra, ecc.
1. Ha senso di parlare di decrescita del Sud, quando il Sud ha appena iniziato o non ha ancora iniziato a crescere? Più il loro PIL aumento, più viene devastata l'ecologia, gli uomini alienati, tecniche ancestrali che hanno permesso a terre di essere fertili per 4000 anni – senza l'industria chimica – dimenticate.
2. Illich scriveva che è vero che i poveri hanno più soldi, ma con il loro poco denaro possono fare di meno. La povertà si modernizza perché i prodotti industriali diventano necessari per la cittadinanza moderna e divengono inacessibili ai più. La povertà è caratterizzata dall'assenza del superfluo: la povertà moderna è l'impossibilità di procurarsi il necessario.
3. Per quanto riguarda l'Africa lo slogan "decrescita" non è pertinente, ma per questo non occorre spingere l'Africa verso una società della crescita.
E i nuovi paesi industrializzati, la Cina, il Brasile, l'India?
Realizzare la decrescita è ancora più difficile che costruire un socialismo nazionale. L'utopia dell'abbondanza frugale dovrebbe funzionare da esempio perché tutte le società lo seguano. Purtroppo abbiamo fatto di tutto perché il virus della crescita – ossia l'adottare una visione dell'economia – si propaghi nel resto del mondo e ora che il capitalismo è diventato la realtà cinese, dopo aver spinto perché succedesse, stiamo diperando. La colonizzazione dell'immaginario è stata la più grande catastrofe che l'Occidente abbia prodotto. Ogni passo verso il "sogno americano" segna un passo in più verso il tracollo ecologico imminente. Le classi dirigenti cinesi, ora che la Cina è il colosso della manifattura, è composta da 100 o 200 milioni di persone. Questi, come è facile immaginare, aspirano all'opulenza americana e come successe qui il secolo scorso, la massa non starà ad aspettare per imitarli. L'America e l'Europa, come non bastasse, sta facendo investimenti giganteschi per motorizzare la Cina. La condizione cinese è la situazione inglese del XIX secolo portata all'estremo: milioni di contadini abbandonano le campagne ogni anno per abbassare la loro qualità della vita, stipandosi in bidonville nei quartieri più inquinati delle grandi città industriali. Ogni anno sono censiti circa 2 milioni di suicidi tentati e 300 mila suicidi riusciti, di cui la metà suicidi di donne. Praticamente un cinese si suicida ogni due minuti, soprattutto nelle campagne. Il 20% della popolazione soffre di depressione e 100 milioni di cinesi rientrano nella categoria di depressi profondi. L'India è nella stessa condizione. Eppure sembra più facile riuscire ad intervenire in Oriente che è portatore di millenni di saggezza, quanto mai lontana dalla razionalità occidentale. I fondamentali del taoismo, buddhismo ed induismo sono più vicini alla decrescita di quanto lo siano i fondamentali monoteistici e la volontà di potenza occidentale.

Quale "soggetto" sarà portare e realizzatore del progetto?
Non c'è un soggetto storico-messianico portatore della decrescita. Abbiamo ereditato dal marxismo la concezione escatologica associata all'idea di un soggetto storico ripreso da Hegel. Il proletariato da classe in sé diventerebbe classe per sé per portare a termine il mandato storico del comunismo. Dopo il fallimento del socialismo concreto diversi intellettuali hanno perseguito la stessa strada: per i terzomondisti sono le "nazioni proletarie", per Marcuse gli emarginati e gli esclusi, "portatori del negativo". Per Karl Mannheim l'intellettuale senza legami; per il sociologo Ray i "creativi culturali" che abbracciano idee femministe e aborrano la globalizzazione. Oggi ci sentiamo meno messianisti e romantici. Tutta la popolazione, escluso quel 3-5% inconvertibile, dovrebbe accettare la visione di un nuovo ordine mondiale.
D'altro canto l'umanità non è mai stata così tanto frammentata, complice la globalizzazione, e variegata che è difficile parlare di "popolazione", ma di varietà etniche portatrici di una visione storica. Nel Sud America esistono delle autonomie politiche già molto vicine alla visione decrescente. Condannano la logica di mercato allargata a tutti gli aspetti della vita e il passaggio da "divenir-mondo della merce" al "divenir-merce del mondo". I neozapatisti si sono trovati rappresentati di una "comunità planetaria" di un soggetto non universale, ma pluriversale, o un diversale, ovverosia un soggetto irrimediabilmente plurale e non omologato.
La decrescita non è un paradigma, ma una matrice di possibilità che contestano il modello neoliberista e la società della crescita. Quindi non c'è un soggetto storico: chiunque può rappresentare la decrescita e realizzarla. Non è un cambiamento di paradigma, ma una necessità storica.

Il cambiamento avverrà dall'alto o dal basso?
Data la posta in gioco occorre evitare limitare i mezzi da prendere in pratica. In Europa i cambiamenti dal basso sono promettenti e la creazione di un partito che, attraverso le elezioni democratiche, promuova la decrescita rischia di cadere nella trappola della politica politicante. Nelle nostre postdemocrazie la politica ha invero poca presa sulla realtà, ne è rimasto solo l'involucro e la politica di mestiere è appunto un mestiere e non una vocazione. Sappiamo che esiste una oligarchia mondiale che svuota le politiche nazionali da ogni sostanza e impone la propria volontà. Tutti i governi, lo vogliano o meno, sono funzionari del capitale dei nuovi padroni del mondo e i politici nazionali, sfuggendo anche alla seduzione di una professione generosamente retribuita, non possono sfuggire alla trappola della politica-spettacolo.
In Sud America, l'Ecuador e la Bolivia, con la propria tradizione indigena, si sta facendo esempio per una costituzionalizzazione della natura (Pachamama)  – considerata un soggetto giuridico a tutti gli effetti – e della "buona vita" (sumak kawsay) e non della felicità.

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